Lohengrin
Asher Fisch | ||||||
Coro e Orchestra del Teatro Comunale di Bologna | ||||||
Date/Location
Recording Type
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Heinrich der Vogler | Albert Dohmen |
Lohengrin | Vincent Wolfsteiner |
Elsa von Brabant | Martina Welschenbach |
Friedrich von Telramund | Lucio Gallo |
Ortrud | Ricarda Merbeth |
Der Heerrufer des Königs | Lukas Zeman |
Vier brabantische Edle | Manuel Pietrattelli |
Pietro Picone | |
Simon Schnorr | |
Victor Shevchenko |
L’ultima prima
Lohengrin è l’ultima produzione a debuttare nella sala del Bibiena prima della chiusura per i lavori che porteranno per qualche anno il Comunale di Bologna fuori dalla sua sede storica. Con la direzione di Asher Fisch si apprezza soprattutto la coppia antagonista formata da Lucio Gallo e Ricarda Merbeth.
L’ultima prima. Se ne parlava ormai da tempo ed è giunto il momento di salutare la sala del Bibiena, con la speranza che l’ottimismo delle autorità sia ben riposto e si possa tornare in sede nel giro di pochi anni (tre o quattro, si dice). Prima di trasferirsi all’EuropaAuditorium per La traviata e poi in Fiera, l’arrivederci si celebra con un titolo emblematico nella storia del Comunale, il Lohengrin che ebbe qui la prima italiana nel 1871, quando mai un’opera di Wagner era apparsa nel nostro Paese.
Mancava da vent’anni esatti, dal novembre del 2002, quando a dirigerla c’era Daniele Gatti con la regia di Daniele Abbado. Allora come oggi Telramund era Lucio Gallo, che si è confermato, nonostante il trascorrere del tempo, un interprete autorevolissimo che trova nell’antagonista del Cavaliere del Graal uno dei suoi personaggi d’elezione. Altero, orgoglioso, subisce l’influenza di Ortrud senza esserne succube e disegna un personaggio forte e ben calibrato.
Sul podio troviamo Asher Fisch, che propone un Wagner asciutto, agile, lucido e ben teso nella narrazione, con l’orchestra che lo segue solerte senza soverchiare il palcoscenico e giocando piuttosto su colori traslucidi contrapposti alle ombre del mondo di Ortrud e alla solennità delle scene d’assieme. Ottima anche, in tutte le sue sezioni, la prova del coro preparato da Gea Garatti Ansini, ben presente e ben tornito nel suono e nell’articolazione.
Un po’ meno interessante lo spettacolo di Luigi De Angelis della compagnia Fanny & Alexander, con la drammaturga e costumista Chiara Lagani. Risulta tutto un po’ anonimo e asettico, fra il cigno proiettato, le tribune e i banchi di giudici e imputato a far da cornice scenica. Semmai, sembra un mero e superfluo riempitivo la presenza di un Wagner (Andrea Argentieri) che, invecchiando di atto in atto, prima sogna, poi concepisce e infine ascolta la sua opera; parimenti, non disponendo di un tenore che sia esattamente il prototipo fisico del principe azzurro e del cavaliere senza macchia e senza paura, fargli percorrere su e giù la scena scalzo e in pigiama all’inizio del terzo atto non è parsa un’ottima idea. Purtroppo, Vincent Wolfsteiner non è nemmeno l’elemento di spicco del cast, non potendo vantare il canto aulico e poetico che ci aspetterebbe per Lohengrin né la tenuta negli acuti e nell’arco dei tre atti, con più di un segno di stanchezza nel cruciale racconto del Graal.
Si impone, invece, l’ottima Ortrud di Ricarda Merbeth, che senza un minimo cedimento sfodera un metallo lucente negli acuti, tutta la feroce potenza, arcana e luciferina, all’occorenza melliflua di un personaggio coevo della Lady Macbeth di Verdi (1947 la prima versione, mentre Lohengrin debutta nel 1850) e memore dell’Englatine dell’Euryanthe di Weber (1823). Azzeccata è anche la contrapposizione con l’Elsa liliale di Martina Welschenbach, dal canto dolce e dal timbro chiaro e luminoso. Nei panni di Heinrich der Vogler è sempre un piacere ritrovare la classe e l’esperienza di Albert Dohmen, mentre Lukas Zeman non è forse il più autorevole degli Araldi, ma assolbe bene al suo compito, così come i nobili brabantini Manuel Pierattelli, Pietro Picone, Simon Schnorr e Victor Shevchenko e i paggi (qui dame) Francesca Micarelli, Maria Cristina Bellantuono, Eleonora Filipponi e Alena Sautier. Simone Cetera e Alessandro Antonino si alternano nei panni del piccolo Gottfried.
Alla fine applausi per tutti. E soprattutto applausi al Comunale nella sala del Bibiena: augurando tanti successi nelle nuove sedi e un pronto rientro a casa.
Roberta Pedrotti | BOLOGNA 13 novembre 2022
Lohengrin, a Bologna, non può che emanare il tipico aroma dell’evento. Da quella mitica prima volta del 1871, Bologna è la città wagneriana, avamposto emiliano della MittelEuropa. Un’identità rivendicata e da rivendicare tuttavia: Tristano aveva inaugurato la sfortunata stagione 2020, l’Olandese volante inaugurerà la prossima. Ma non di solo Wagner vivrà l’uomo, e così nel 2019 Salome e quest’anno Ariadne, entrambe dirette magnificamente da Valčuha, hanno formato un piccolo dittico Straussiano, che doveva preludere ad un favoleggiato Rosenkavalier, che come è nella sua indole ci lascia in palpitante attesa: il tempo, bizzarra cosa.
Questo Lohengrin è anche una “fatal pietra” che si chiuse sull’amatissima sala Bibiena, amata sia per l’altissimo pregio architettonico sia per l’acustica strabiliante (e delicata). E poi il titolo è un evento di per sé. I complessi del Comunale si sono confermati ai loro altissimi livelli: fibre di nervi e muscoli per una terribile e lucente sonorità wagneriana, con preludio al terzo atto da antologia, e non una sbavatura d’intonazione negli ottoni (il che, Knappertbush lo sa, non è poi così scontato). Asher Fisch ha ritrovato l’equilibrio sonoro che nello scorso Otello era stranamente scivolato a sfavore dei cantanti e ora tutto funziona, benché senza troppi incanti, sfumature, trasparenze. Che un po’ si rimpiangono perché il mitico piace sempre, ma che effettivamente non sarebbero troppo coerenti alla messa in scena. La regia di Luigi de Angelis, che cura anche scene, luci e video, ambienta la vicenda in un fosco tribunale marziale, ma con incursioni meno prosaiche di un Wagner in piena febbre creativa, con piccolo Ludwig al seguito e cigno al guinzaglio. I fondali animati, brumosi ma che lentamente si rivelano, hanno un’anima intimamente padana, e il suono dell’orchestra felsinea resta un suono italiano, brillante: forse è una strada da percorrere, magari, provocazione, eresia, rispolverando vecchie o promuovendo nuove versioni ritmiche italiane. D’altronde quel mitico Lohengrin del 1871 piacque tanto anche perché, almeno in qualche misura, italiano. Sempre ottimo, inutile dirlo, il coro di Gea Garatti Ansini, rimpolpato per l’occasione da quello del Teatro Accademico Nazionale di Opera e Balletto “Taras Shevchenko” di Kiev.In tempi disincantati e nient’affatto romantici è la coppia dei cattivi ad accattivare il pubblico: ma meritatamente. Una recitazione credibile (leggi: cinematografica, perché il pubblico oggi, gira e volta, è sempre filonetflix e antiteatrale, per cui chi non recita naturalistico non sa recitare) nei larghi tempi wagneriani è un curioso ossimoro da cui si può uscire vivi solo con perizia acrobatica, cosa che a Lucio Gallo riesce a meraviglia, e non da meno è la consorte Ricarda Merbeth. A entrambi si possono perdonare certi suoni perché imputabili alla necessità espressiva della malvagità ferina. Non altrettanto ai protagonisti, che smontato l’allestimento e chiuso il Bibiena, possono essere collocati di tutto diritto sull’albero di Natale, essendo dotati di abiti catarifrangenti orlati di lucine festive. D’altronde questi soggetti mitici wagneriani sono corde tese sotto le quali rumoreggia ingordo il mare del ridicolo. Che con le sue onde ha schizzato più il sovrannaturale protagonista, Vincent Wolfsteiner: niente physique du rôle (ma chi ha il fisico da Cavaliere del Sacro Graal scagli la prima pietra), voce dal timbro non sgradevole né ammaliante ma emissione dura, spinta, faticosa. E meno la sua malfidata umana consorte, Martina Welschenbach, cui è sfuggito un po’ di vibrato nella prima aria del second’atto, piccolo vizio da cui si è poi redenta. La sua è la voce che corre e scorre più di tutte, limpida e serena, insomma di quelle chiare, fresche e dolci voci che per intendersi si dicono di gusto italiano.Dignitoso e omogeneo il resto del cast, a partire da Re Heinrich, Albert Dohmen, combattivo in scena ma più arrendevole con l’orchestra.E poi di corsa in stazione per non perdere l’ultimo cigno verso casa. Si replica fino al 20 novembre.
PIERFILIPPO BARALDI | 15 NOVEMBRE 2022