Die Meistersinger von Nürnberg

Zubin Mehta
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Date/Location
23 April 2004
Teatro Comunale Firenze
Recording Type
  live   studio
  live compilation   live and studio
Cast
Hans Sachs Franz Hawlata
Veit Pogner Reinhard Dorn
Kunz Vogelgesang Valter Borin
Konrad Nachtigall Luciano di Pasquale
Sixtus Beckmesser Dietrich Henschel
Fritz Kothner Maurizio Muraro
Balthasar Zorn Carlo Bosi
Ulrich Eißlinger Enrico Cossutta
Augustin Moser Enrico Facini
Hermann Ortel Danilo Serraiocco
Hans Schwartz Luigi Roni
Hans Foltz Antonio De Gobbi
Walther von Stolzing Robert Dean Smith
David Jörg Schneider
Eva Emily Magee
Magdalene Hermine May
Ein Nachtwächter Giovanni Battista Parodi
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Mettere in scena oggi i Maestri Cantori di Norimberga presenta una duplice problematica: da una parte bisogna affrontare con coraggio e astuzia un organismo monumentale come pochi altri, in cui è ostico dire qualcosa di veramente personale se viene a mancare una spiccata personalità registica e direttoriale; dall’altra vi è la contraddittoria questione delle voci, che devono essere sì oltremodo resistenti per affrontare con successo la lunghissima e vastissima partitura, ma che nondimeno, per le qualità intrinseche della scrittura, non possono essere le consuete heldenstimmen stile Tristano o Tetralogia. Il baricentro di un allestimento dei Maestri Cantori è quindi il punto di intersezione tra questi due aspetti che, seppur nettamente distinti, devono raggiungere uno stabile equilibrio dialogico: cosa non facile, detto per inciso, né per un teatro mitteleuropeo né tantomeno per uno italiano. La sfida è stata tentata in grande stile dal Maggio Musicale Fiorentino, che ha aperto la sua sessantasettesima edizione proprio nel segno di quest’opera: ammirevole tentativo, senza dubbio, vista la scarsa frequentazione italiana di questo titolo nelle ultime stagioni, ma non coronato a mio avviso da una piena riuscita. La grande affluenza di pubblico a questo spettacolo, più che dall’opera in sé, è stata indubbiamente causata dalla presenza di colui che Firenze ha eletto a spron battuto come proprio paladino musicale in ogni produzione operistica e sinfonica di una certa importanza: vale a dire Zubin Mehta, che ha trovato in terra toscana un pubblico pronto ad accoglierlo a braccia aperte e che, sulla base di un rapporto affettivo ed amichevole invero ammirabile in un direttore d’orchestra, continua a mietere trionfi su cui ogni volta si potrebbe tranquillamente scommettere a priori. Anche per questi Maestri Cantori, ovviamente, il successo personale di Mehta è stato confermato da evidenti manifestazioni d’affetto, che lo hanno accompagnato ad ogni entrata: indubbiamente, un plauso se lo merita quantomeno per l’immane sforzo fisico che ha dovuto sostenere dall’inizio alla fine, e in particolar modo in un impietoso terzo Atto che dura non meno dell’intera Tosca; tuttavia – lungi da me l’idea di voler fare il guastafeste a tutti i costi – da un punto di vista puramente artistico non si può dire che la direzione sia stata memorabile. Dare una fisionomia marcatamente personale a quest’opera, i cui “binari” interpretativi, per così dire, sono assai ben delineati, non è certo cosa facile: se poi l’intenzione non arriva nemmeno a tanto, ma ambisce a nulla più che “tirare avanti” la vicenda, è abbastanza prevedibile che si esca da teatro con un’idea piuttosto confusa su quale apporto personale si abbia voluto imprimere alla partitura. La sensazione dominante è all’incirca la stessa che ho avuto modo di esprimere recensendo la Valchiria in CD diretta dallo stesso Mehta, ossia quella di un’attenzione riservata più che altro ai momenti topici, dionisiaci o apollinei che siano, come il Preludio, i Monologhi di Sachs, le quasi-Arie di Walther, i grandi cori della scena della Pegnitz; ma tutti i momenti di dialogo, rapido e liquido come mercurio, che costituiscono il tessuto connettivo dell’intera opera sembrano essere messi in ombra, quasi fossero delle grigie formalità presenti giusto per dare maggior risalto agli episodi culminanti di cui sopra. Fortunatamente non ci si annoia mai, perché aleggia nell’aria l’inebriante profumo di ironia e di spensieratezza che si espande spontaneamente da ogni nota: ma questa è caratteristica più dell’opera in sé che non della concertazione di Mehta, da cui in definitiva ci si aspettava qualcosa di più. Se poi la bravura del direttore si giudica anche da come l’orchestra risponde, le impressioni interlocutorie sono ulteriormente confermate. Quella del Maggio, infatti, è sicuramente un’orchestra di primo piano, costituita da professionisti perfettamente in grado di dominare il proprio strumento al meglio: il segno distintivo del grande direttore dovrebbe emerge dal processo di sintesi in grado di portare i singoli strumenti, pur senza far perdere loro la propria individualità, ad amalgamarsi in un tutto unico e organico. Proprio questo è ciò che è mancato alla bacchetta di Mehta: il risultato è stato quello di un insieme abbastanza scollato ed eterogeneo di virtuosi chi del violino, chi del corno, chi dei timpani, chi dell’oboe e così via. Grande orchestra, ma qualitativamente non sfruttata quanto le sarebbe lecito. All’incirca sulle stesse coordinate si muove l’innocua regia di Graham Vick, che non è certo uno sprovveduto, ma le cui produzioni sembrano di tanto in tanto intimidirsi di fronte alla quantità di stimoli e idee presenti in un organismo teatrale. Così, quando si trova di fronte ad un’intuizione nuova ed interessante, anziché svilupparla prepotentemente in tutto il suo potenziale le gira attorno, la corteggia, la sfiora ma non la affronta mai di petto: se la lascia sfuggire quasi impaurito e ripiomba in un conformismo appena appena celato da qualche scena bizzarra, da qualche colore stravagante giusto per provocare la mente dello spettatore, che si chiede come vada interpretato un certo presunto simbolo, o una certa disposizione scenica, senza che in realtà ci sia nulla da interpretare o da capire. Si può dire che sia un atteggiamento di tipo deduttivo, ossia che strada facendo presti attenzione ai momenti che incontra, ma senza tuttavia giungere, alla fine, ad una sintesi che organizzi tutto il materiale in una chiara oggettivazione interpretativa. È anche in questo caso difficile dire che cosa abbia voluto esprimere di particolare, di personale e di nuovo Vick con una regia che sembra stare a metà strada tra la ricerca delle atmosfere estive e mediterranee (tutt’altro che estranee all’opera in questione) ed un certo claustrofobismo dovuto all’inquadramento della scena in strutture a forma – mutatis mutandis – di cubo e di parallelepipedo. Non che ci sia alcunché di particolarmente sgradevole nei colori spiccatamente fauves delle scene, che trascolorano dal marrone, ocra e arancione velati di viola del primo Atto al blu/azzurrino e ancora marrone del secondo, fino al verde del terz’Atto e agli azzurri chiarissimi della Pegnitz: suggestivi, certo, ma non sufficientemente giustificati da una qualsivoglia idea generale. Depone d’altra parte a favore di Vick la capacità di narrare in modo diretto ed efficace, senza fronzoli di sorta: la naturalezza e la fluidità di movimento dei personaggi (ma molto meno delle masse corali, purtroppo) ci fanno perfettamente vivere quel senso del tempo reale che è proprio dei Meistersinger e che non dovrebbe mai essere sostituito dalla fissità, dall’immobilità o dalla retorica – pure presente in modo neanche troppo velato in alcuni passi del libretto – proprie, in modo devastante, di altri allestimenti. In questa cornice si inscrivono piacevolmente le gag di David e di Beckmesser, l’uno coinvolto negli scherzi degli apprendisti cantori, l’altro pirotecnicamente protagonista di alcuni memorabili attimi di follia, come la scena del second’Atto che lo vede scalzo mentre Sachs gli modella le scarpe, o quella del terz’atto in cui, non visto, spaia perfidamente tutte le calzature nella bottega dello stesso Sachs. Neanche la regia annoia, insomma: una volta accertato che non c’è nulla di nuovo sotto il sole basta abbandonarsi alla scorrevolezza del discorso, alla liquidità del dialogo per godersi uno spettacolo che si attiene sempre su un livello di soddisfacente piacevolezza, ad onta di costumi invero un po’ kitsch. La compagnia di canto volge quantomeno l’attenzione su alcune delle voci wagneriane del momento: è una questione sempre aperta quella che riguarda l’incerto presente (e l’ancor più incerto futuro) della vocalità lirica in genere e di questo repertorio in particolare. Dicevo in apertura come sia delicata la questione dei Meistersinger, che richiedono per alcuni personaggi voci sensibilmente diverse da quelle coinvolte nelle altre opere della maturità di Wagner, riallacciandosi piuttosto allo stile di quelle giovanili: così Walther von Stolzing riprende certi tratti vocali di Tannhäuser e di Lohengrin, Eva ricorda le eroine angelicate Elisabeth ed Elsa, mentre David rappresenta quasi un unicum nel canto wagneriano, mescolando elementi lirici del Timoniere del Fliegende Holländer (personaggio alquanto marginale, in verità) con sprazzi da caratterista del ben più impegnativo Mime. Vi è poi la contrapposizione Sachs/Beckmesser, un bass-bariton e un baritono brillante, che ricorda “in piccolo”, sia vocalmente sia drammaticamente, quella Wotan/Alberich del Ring: ed è proprio il rapporto di proporzionalità tra lo Schuster e lo Schreiber a costituire l’aspetto più interessante della distribuzione vocale fiorentina. Non si può dire che Franz Hawlata abbia una personalità trascinante: il suo è più che altro carattere, vale a dire un sottoinsieme della personalità. Però, tanto sono evidenti l’onestà e la sincerità con cui si accosta all’immane compito di impersonare Hans Sachs – che, secondo una curiosa ricerca, sarebbe il personaggio con la maggior permanenza in scena in assoluto nell’ambito di un’opera lirica – che fin dall’inizio si fa il tifo per lui. Il suo Sachs giovanile, sbarbatello e un po’ hippy emana una calda e amichevole umanità, forse più fraterna che paterna come avviene di solito, ma sempre in grado di porre nell’evidenza adeguata tutti gli aspetti del complesso personaggio, a volte illuminandoli anche di luce nuova. I due importanti Monologhi non hanno il sapore di una crepuscolare presa di coscienza della propria inadeguatezza, del malinconico accorgersi che i tempi mutano e incalzano più di quanto si vorrebbe: piuttosto, sotto la scorza ruvidamente virile della voce di Hawlata si avverte come questi momenti rappresentino il sintomo di qualcosa di nuovo che si agita, e quindi l’opportunità di un cambiamento che, positivisticamente, segna una tappa ulteriore del progresso e quindi un miglioramento rispetto alle condizioni di partenza. Alla luce di questo la perorazione finale, sempre ad alto rischio di imbarazzo viste le affermazioni pesantemente nazionalistiche che vi sono disseminate, assurge al ruolo di incentivo al continuo rinnovarsi dell’arte e della cultura: non l’Innovazione che si integra nella Tradizione, dunque, ma la Tradizione che vive e si perpetua grazie all’Innovazione. Da un punto di vista meramente musicale, la voce di Hawlata non è particolarmente bella come timbro né come emissione, essendo viceversa ruvida e di grana grossa: però è estremamente teatrale e scava con minuzia e attenzione nei meandri di un fraseggio che riserva sorprese a tamburo battente. Efficacissimo è il contrasto (probabilmente casuale, ma non per questo di minor importanza) che si viene a creare con il Beckmesser di Dietrich Henschel. Rifiutando ogni concessione allo stile plateale che una certa tradizione ha appiccicato al personaggio, Henschel lo risolve in un canto nobile, elegantissimo e perfettamente levigato, in cui si riconosce subito la stoffa del grande liederista. Se il Sachs di Hawlata non si attacca pedissequamente ai meri valori del belcanto ma, più wagnerianamente, cerca l’espressione nell’incisività della parola, ecco che per contro il Merker, pedante custode di regole applicate più per rituale che per autentica esigenza, si esprime con un canto del tutto ortodosso e perfettamente ligio al buon gusto: anche in questo vi è una leggerissima satira, una maliziosa ironia che si diverte a stuzzicare i benpensanti fingendo di accontentarli ma in realtà raggirandoli. Nessun dubbio che Henschel sia stato il migliore del cast sotto tutti i punti di vista: la sua figura alta, magra e aristocratica nei lineamenti è tutt’altro dalla macchietta cui spesso viene relegato il personaggio, e anzi la sua recitazione sobria, nobile e di classe rende ancor più esilaranti i momenti in cui si trova coinvolto ora nella baruffa, ora nella serenata fastidiosamente interrotta dai colpi di martello di Sachs, ora nel grottesco e pietoso tentativo di vincere la tenzone finale. D’altronde, è regola conclamata da secoli quella secondo cui è infinitamente più divertente una torta tirata in faccia ad un signore serio e distinto, piuttosto che ad un ridanciano clown. Di livello sensibilmente inferiore il resto della compagnia. Robert Dean Smith, una delle realtà tenorili più in auge di questo repertorio, non ha lasciato traccia imperitura di sé, cantando fuor di dubbio correttamente ma senza troppo carattere e senza tratti vocali o interpretativi particolarmente riconoscibili (non volendo scomodare i grandissimi del passato, basta retrocedere fino agli anni ‘70/’80 per trovare tenori come Jerusalem o Kollo che, pur discutibilissimi, erano comunque immediatamente identificabili da un timbro e da uno stile del tutto particolari). Neppure memorabile Emily Magee nei panni di Eva, personaggio per cui il rischio di cadere nel cliché della bambolina tutto zucchero e miele è sempre in agguato; qui viene quantomeno evitato, ma francamente non si riesce a ricordare neppure una caratteristica qualsiasi della sua pallida performance. Meglio caratterizzati il David simpatico e gioviale (ancorché leggermente macchiettistico) di Jörg Schneider, cantato con voce gradevole ma non troppo ampia, e il Pogner cordiale di Reinhard Dorn, così come di bella voce e di notevole presenza la Magdalene di Hermine May. Nella folta schiera dei Maestri Cantori, l’occhio cade infine piacevolmente sorpreso sul nome del glorioso Luigi Roni.

Marco Fornengo

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User Rating
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Media Type/Label
Technical Specifications
192 kbit/s CBR, 44.1 kHz, 359 MByte (MP3)
Remarks
Broadcast from the 67° Maggio Musicale Fiorentino
A production by Graham Vick