Parsifal
Michail Jurowski | ||||||
Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova | ||||||
Date/Location
Recording Type
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Amfortas | Albert Dohmen |
Titurel | Julian Rodescu |
Gurnemanz | Manfred Hemm |
Parsifal | Torsten Kerl |
Klingsor | Josef Kapellmann |
Kundry | Lioba Braun |
Gralsritter | ? |
? |
Il pubblico ancora rumoreggia in sala, tra lo sfogliare del programma e il borbottio con il vicino di poltrona; immarcescibili ritardatari fendono l’ormai calata oscurità con le luci azzurrognole e quadrate dei cellulari, alla strenua ricerca di un posto su cui sedersi: chi s’inciampa, chi urta le gambe di qualcun altro, chi dice all’amico che bisogna andare sei file più su – e all’improvviso inizia la musica.
Ci saranno ancora quaranta persone in piedi e l’algido la bemolle maggiore del preludio già si fa strada nelle orecchie degli spettatori, osteggiato dal formicolante caos appena accennato cui si aggiunge un italoteutonico “kiudere!” urlato da un qualche anfratto delle profondità orchestrali verso una finestra, ancora semiaperta, colpevole di un’ultima chiazza di luce (chi conosce il Carlo Felice avrà ben presenti le finestre che occhieggiano dalle pareti prima dei palchi). A Bayreuth, d’altronde, Parsifal funziona proprio così: l’arrivo del direttore non è visibile, quindi non si applaude, e la musica può iniziare in qualsiasi momento di quel silenzio gravido di attese. Se soltanto il direttore Mikhail Jurowski avesse aspettato la quiete in platea, il tentativo di emulazione bayreuthiana sarebbe anche riuscito: così, invece, l’incipit viene sommerso da una nube di cauto fracasso, e addio raccoglimento. Sembra un’inezia, ma così l’importantissimo preludio sembra quasi venir scambiato per un logorroico pout-pourri di temi dell’opera stile Offenbach: è in occasioni simili che si comprende quanto fossero fondate le preoccupazioni – nonché il veto tout court – di Wagner circa l’eventualità di rappresentare Parsifal in teatri extra-Bayreuth.
Aldilà di questo spiacevole incidente, la più grande attrattiva dello spettacolo era dichiaratamente la regia di Harry Kupfer. Concepito agli inizi degli anni Novanta per la berlinese Staatsoper Unter den Linden e forte di una ripresa video da parte della Teldec, tale allestimento è esemplare modello di quel teatro di regia tanto in voga nei Paesi mitteleuropei quanto poco conosciuto – e talvolta pure malvisto – in Italia: la proposta genovese è quindi da salutare con calorosa gioia, tanto più che ha messo d’accordo anche i più scettici e i più tradizionalisti.
Dal punto di vista temporale, Kupfer incapsula la vicenda in una bolla d’aria lasciata fluttuare nei vuoti pneumatici di un ipotetico futuro collassato su sé stesso: laddove imperano ormai alleate cupidigia, corruzione e lussuria, dove pare soccombere la vita stessa, ridotta allo stato larvale e mutilato di Klingsor, la confraternita del Gral costituisce una sorta di circolo ermetico, totalmente chiuso in sé stesso nel tentativo di preservare la luce della purezza, della giustizia – e della vita. Roccaforte non tanto di ideali esoterici quanto di semplici precetti esistenziali, “luogo” in cui la vita viene tenuta sottovetro onde evitare qualsiasi contaminazione con il morbo che porterebbe in men che non si dica all’estinzione, il tempio di Monsalvat perde una volta tanto i connotati di elitario tabernacolo di individui socialmente o etnicamente “superiori” che certa tradizione (non aliena da pericolosi sottintesi politici) ha amato vedervi, per divenire viceversa santuario consacrato al bene dell’esistenza, o meglio della sopravvivenza, sorto in un angolo di quelle stesse fatiscenti macerie tecnologiche che troveremo nel territorio di Klingsor. L’elemento scenico che simboleggia tale clausura (necessaria, quindi, non epitome di ostentato snobismo) tra pareti di nerissima lamiera è costituito da un’enorme porta blindata circolare, alta quanto tre uomini, tenuta aperta solo sotto strenua sorveglianza: dall’altra parte, come aldilà di un passaggio non solo spaziale ma anche dimensionale, vi è la «terra dei pagani». Nel primo atto, allorché viene aperta per condurre Amfortas alla sua balsamica immersione, si sprigionano da essa luci taglienti e bianchi vapori, che abbagliano e feriscono; nel second’atto siamo dall’altra parte, nel castello di Klingsor, e attraverso vi vediamo Parsifal pronto alla sfida. Nel terzo, in cui il pericolo è stato debellato, la porta scompare, quasi a simboleggiare la non più esistenza di un “dentro” e di un “fuori”, ma si è ben lungi da un qualsivoglia happy end: l’illuminazione violacea dell’interno del tempio e le sue soffocanti, claustrofobiche architetture gettano l’ombra di un’irrisolvibile – e voluta, chiaramente – ambiguità di fondo in cui, di fianco ad una possibile ma molto remota redenzione, rimane a galleggiare l’idea di un cedimento a quelle stesse leggi che governano il devastato mondo esterno.
Il percorso iniziatico di Parsifal è molto ben reso soprattutto nel suo nucleo centrale, vale a dire il second’atto: ciò che Parsifal si trova di fronte nel giardino fatato di Klingsor non è un nugolo di belle ragazze, come ci si potrebbe aspettare, ma un mucchio asimmetrico di televisori sparsi su di una piattaforma ondulata le cui linee rosse dipinte evocano ora una psichedelica grafica da computer, ora il disegno di procaci collant femminili: sugli schermi si materializzano volti, schiene, occhi e bocche femminili mischiate a immagini floreali. Ma l’ossessiva seduzione “virtuale” (chiaro il riferimento alla smisurata influenza anche erotica che genera la televisione, con annesso martellamento cerebrale e obnubilazione del senso della realtà) nulla può contro Parsifal, che è l’«eletto» e per di più protetto dal suo «scudo di follia»: a tentativo fallito, gli schermi vanno in tilt e vi rimane solamente un’innocua interferenza. Kundry si fa quindi avanti da un’apertura, diresti una ferita, formatasi in mezzo alla piattaforma, a bordo di quell’enorme oggetto a forma di punta di lancia (o anche, volendo, di snella scarpa femminile) su cui nell’atto precedente Amfortas aveva urlato il proprio dolore: qui si svolge l’intera scena di seduzione, danza ammaliante sul filo del rasoio di un triplice senso di colpa e di un erotismo nervoso e incalzante. Il crollo del castello e del giardino è idealmente rappresentato da un metallico gioco di luci, da cui emerge il cumulo di televisori ora sventrati e ridotti a detriti fumanti: sconfitto Klingsor è sconfitta la menzogna, complice di quello stordimento di cervelli che sempre s’accompagna a certa informazione di massa.
Nel gelido terz’atto, la natura appare solo come pallida eco di un mondo perduto: su di un enorme parallelepipedo di metallo si specchiano velate immagini di nuvole e di arcobaleni, distanti e irreali. Il rinnovamento della vita legato al Venerdì Santo appare in quest’ottica nulla più che una vaga speranza, minuta fiammella nell’occhio del ciclone protetta dalle deboli mani di qualche malinconico idealista; nel finale, il dolore di Amfortas appare troppo devastante per poter essere messo a tacere dal semplice tocco della lancia, e si espande con terrificante eco nel buio cosmico di un universo senza dio.
Spettacolo improntato dunque ad un epico pessimismo, come d’altronde già era stato il Ring des Nibelungen firmato da Kupfer a Bayreuth nel 1988: l’aspetto eroico rimane di straordinario afflato, accresciuto anzi dalla cocente attualità degli strumenti concettuali utilizzati (uno su tutti, il già citato gioco di televisori del second’atto). Si può tuttavia muovere qualche riserva sul piano strettamente tecnico: talune soluzioni rendono bene l’idea, ma sono poco suggestive nel gioco scenico. I già pluricitati schermi, per esempio, sono troppo pochi e occupano una porzione troppo limitata del palcoscenico per dare compiutamente quell’idea di ossessionante tempesta telematica che vi si legge tra le righe; la punta della lancia e la piattaforma ondulata a linee rosse, entrambi elementi mobili e praticabili, scadono un po’ nel pacchiano con quel loro scricchiolare da giostre consumate; le pareti di lamiera hanno un aspetto piuttosto approssimativo; il trucco della lancia scagliata da Klingsor e afferrata a mezz’aria da Parsifal è mal coordinato ed evidentissimo: il rischio, più volte oltrepassato, sta proprio nel far perdere verosimiglianza a idee di per sé decisamente interessanti ed intelligenti, con seguente salto dal sublime al ridicolo.
Il versante musicale alterna risultati esemplari ad altri mediocri. Tra questi ultimi va inscritta a malincuore la direzione di Mikhail Jurowski, non contraddistinta da alcun merito particolare: non vi si scorge né l’impronta aulica e monumentale d’un Knappertsbusch, né il febbrile nervosismo d’un Boulez, giusto per citare i due direttori di quest’opera interpretativamente più distanti, né – ed è più grave – una proposta alternativa e personale. Direzione né tesa né morbida, né rapida né indugiante, né epica né lirica, ma semplicemente inclassificabile nella sua impersonale anemia: buoni momenti ve ne sono stati, soprattutto sul finire degli ultimi due atti, ma la sensazione principale – avallata anche dalla non trascendentale prova dell’orchestra – alla fine è quella di mera tappezzeria per le voci, cosa che in Parsifal mai si dovrebbe verificare.
Belle sorprese sul fronte vocale, invece: a cominciare dal protagonista, un Torsten Kerl particolarmente in forma, dalla voce piena, scorrevole, di colore scurissimo ma ben estesa verso l’acuto. Un Parsifal efficace e convincente, il suo, nel mirabile trascolorare dalla scimmiesca ingenuità del primo atto alla totale presa di coscienza del terzo, tanto scenicamente quanto vocalmente: non so fino a che punto siano realmente da rimpiangere tenori come Windgassen, Vinay, Vickers, o venendo a tempi più recenti Jerusalem, giacché Kerl si inserisce di diritto nel terzetto dei migliori Parsifal del momento assieme a Poul Elming e Placido Domingo. Indubbiamente un grande risultato, che di questi tempi non può che confortare.
Lioba Braun non è certo in possesso di ciò che canonicamente si definisce una bella voce: assai aspra e secca, la sua, povera soprattutto di quello smalto ammaliante che il canto di Kundry dovrebbe istintivamente possedere. Però il personaggio è risolto splendidamente: un incessante lavoro di fraseggio la mette in condizioni tali da risolvere con intelligenza quei passaggi in cui altre interpreti sono portate ad ostentare solamente belluina voracità vocale, e il suo second’atto seduce proprio in virtù dello scavo psicologico – non inedito, ma certo efficace – conferito al personaggio. A vibrare non è tanto la corda della sensualità, quanto piuttosto quella del processo edipico-freudiano cui Kundry, attraverso il senso di colpa, sottopone Parsifal: più madre che maliarda, più penetrante che aggressiva, questa creatura della notte colpisce assai più per la sua intelligenza che non per la sua carnalità.
La voce di Albert Dohmen, nei panni di Amfortas, si dimostra particolarmente povera di armonici e non memorabile come timbro; canta però con grande stile e grande tecnica, e l’interpretazione, anche se un tantino convenzionale, è vibrante e coinvolgente, ricalcata sul grande modello tragico di London assai più che su quello umano e decadente di Van Dam.
Di livello più basso il Gurnemanz pallido e timido di Manfred Hemm, ed è assai strano, trattandosi di un cantante la cui performance più celebre rimane il suo Papageno muscoloso, estroverso e persino dilagante.
Un errore di Kupfer è poi la rappresentazione del personaggio di Titurel: anziché farlo cantare da fuori scena, come prescritto, ce lo troviamo seduto su un alto seggiolone stile arbitro da tennis, per di più acconciato in modo piuttosto ridicolo a mezzo tra uno zio Fester, uno zio Bonzo e un Budda imbellettato. Poco aiuta la voce decisamente troppo giovanile e chiara di Julian Rodescu, dal volume inoltre assai debole.
Impressionante viceversa la caratterizzazione offerta da Franz Josef Kapelmann al personaggio di Klingsor: l’idea è sempre quella dell’orco cattivo, ma l’intensità di un’interpretazione al calor bianco e coadiuvata da un fraseggio mirabile supera anche, al confronto, quella di Kerl e della Braun. Tra tutti, indubbiamente Kapelmann è colui che maggiormente “buca” il palcoscenico.
Un plauso va anche al coro genovese rinforzato dal Coro da Camera della Radio Ceca, e per una volta ben affiatato e intonato il gruppetto delle Fanciulle Fiore, che ha cantato nella buca dell’orchestra.
Marco Fornengo
Applausi al Carlo Felice per “Parsifal” opera inaugurale della nuova stagione, assente dai palcoscenici genovesi da ben quarant’anni. Una lunga maratona, iniziata alle 19 e conclusa a mezzanotte e mezza, accolta festosamente dalla platea, anche se lo spettacolo deve ancora rodarsi e alcuni aspetti sono parsi discutibili. Il Carlo Felice si è affidato per l’estremo capolavoro wagneriano alla bacchetta di Michail Jurowski e alla regia di Harry Kupfer ospitandone l’allestimento creato per Berlino una decina d’anni fa e portato per la prima volta in Italia. Il tema della redenzione, centrale in “Parsifal”, ispirò a Wagner una partitura di forte austerità, imponente, robusta, ma anche intimista, capace di suggestioni liriche profonde. Un mondo sonoro di palpitante suggestione che Jurowski ha cercato di restituire lavorando lodevolmente sul suono e sul fraseggio e ottenendo esiti interessanti, anche se qua e là, si è avvertita qualche discrepanza fra palcoscenico e buca ed è venuta a mancare una effettiva partecipazione drammatica. L’interiorizzazione è stata in parte compromessa dalla messa in scena di Kupfer che ha puntato su una struttura spoglia, fantascientifica. Abolito qualsiasi riferimento alla “natura” (spesso così rilevante in Wagner) ci si è calati in un’atmosfera da Star Treck: pannelli metallici scorrevoli e roteanti, un enorme scrigno (simila al caveau di una banca) che custodisce il Graal; nel secondo atto sostituzione del giardino delle delizie, con innumerevoli monitor con immagini erotiche e sensuali. Tecnicamente irreprensibile (bello ad esempio nel primo atto il viaggio verso il Graal), la lettura di Kupfer ha finito per essere a tratti fuorviante e distraente rispetto allo spirito della partitura. Eccellente il cast. Torsten Kerl è un Parsifal generoso e possente, Lioba Braun regala una Kundry ricca di sfaccettature espressive, Albert Dohmen è un autorevole Amfortas, Manfred Hemm e Josef Kapellmann si mostrano assai convincenti in Gurnemaz e in Klingsor.
Roberto Iovino