Parsifal
Roberto Abbado | ||||||
Coro e Orchestra del Teatro Comunale di Bologna | ||||||
Date/Location
Recording Type
|
Amfortas | Detlef Roth |
Titurel | Arutiun Kotchinian |
Gurnemanz | Gábor Bretz |
Parsifal | Andrew Richards |
Klingsor | Lucio Gallo |
Kundry | Anna Larsson |
Gralsritter | Saverio Bambi |
Alexey Yakimov |
Ed è anche una metafora perfetta del mondo dell’opera lirica oggi. È un tipico segno di senilità (e figura ricorrente dell’immaginario decadente) quello di cercare l’illusione di una nuova vita facendosi strapazzare da qualche giovane ninfetto/a. Questo è appunto l’atteggiamento della vecchia signora per eccellenza della cultura, l’opera lirica, che invece che accettare i propri anni e condividere con il mondo la sua esperienza, cerca di dimenticare il passato e si rende ridicola in folli nottate in discoteca insieme a “giovani registi d’avanguardia” (che non sono poi quasi mai giovani e non possono essere d’avanguardia perché il concetto stesso di “avanguardia” è ormai morto e sepolto da un pezzo), la cui certificazione di autenticità deriva appunto dall’essere totalmente estranei al proprio mondo e di non sapere e non capire nulla, precisamente come Parsifal. Che cosa dovrebbe fare colui che ama l’opera? Condannare questa follia temendo che la nonna sperperi in questa folle unione tutta la sua eredità o essere grato al brutale giovinetto per quegli improbabili attimi di ebbrezza che avrà potuto regalare all’ava moritura? La risposta dipende anche dalla diagnosi che si fa dello Parsifal – Bologna, 2014stato di salute dell’opera lirica. Sono i titoli scritti nel Sette-Otte e Novecento che hanno bisogno di redenzione? O non è piuttosto la forma dell’opera lirica che ha bisogno di guarire dalla sua sterilità? Il “regista d’avanguardia” è invocato come un redentore che risusciti e imbelletti manufatti del passato, indecenti nella loro vecchiezza, per adattarli al gusto odierno, come i peni di plastilina fatti applicare da Berlusconi sulle statue romane. Ma ci si guarda bene invece dal creare opere nuove, che siano integralmente moderne. Come per Klingsor, non è forse la sua auto-castrazione, l’incapacità e la riluttanza di creare nuove opere la vera causa della decadenza? Se le avessimo prodotto dei nipotini, forse la vecchia signora avrebbe qualcosa di più gratificante da fare che non fingere grottescamente di essere una ragazzina.
Abbandoniamo la bizzarra metafora e lasciamo alla riflessione del lettore questi interrogativi sulla decadenza e redenzione del melodramma in generale. Concentriamoci sul Parsifal, opera appunto decadente sulla decadenza e sulla redenzione (ma redenzione di che? dell’individuo? dell’Occidente? della razza? del cristianesimo? del sacro?). Ha bisogno essa stessa di essere redenta? Come messianico redentore si propone senza alcuna ritrosia il regista (che firma anche scene, costumi e soprattutto luci) di questo spettacolo creato per La Monnaie di Bruxelles e ripreso a Bologna per celebrare il centenario dalla prima rappresentazione italiana, avvenuta in contemporanea a Bologna e Venezia il 1 gennaio 1914. Romeo Castellucci, guida dello storico gruppo d’avanguardia degli anni ’80-’90, la Socìetas Raffaello Sanzio, idolatrato in tutti i festival di teatro contemporaneo d’Europa, esordisce così nella sue note di regia sul programma di sala: “Ho cercato di dimenticare tutto quello che si sapeva. Mi sono posto nelle condizioni di chi non sa nulla. Allora ho chiuso gli occhi e ho ascoltato una volta, venti volte e Parsifal – Bolgna, 2014poi cento volte questa musica, questa cosa. E poi ancora. Ho dormito. Ho rifatto tutto il Parsifal in una mente di amnesia, dall’inizio alla fine.” Magari a qualche miscredente verrà fatto di chiedersi: “Perché dimenticare? Perché rifare?”. Naturalmente la vera risposta è che, essendo regista d’avanguardia, questo è quello che il mercato si aspetta da lui. Ma Castellucci prova a darne una ragione più profonda: “Un titolo come questo richiede una visione che nasce dal profondo, che si prende tutto, non una strategia illustrativa. In un certo senso posso dire che per essere fedeli [corsivo di Castellucci] bisogna prima dimenticare [corsivo dell’autore del presente articolo]. Dimenticarsi di Parsifal, perderlo, e poi infine ritrovarlo. Nuovo.”.
A prescindere da considerazioni sul teatro di regia in generale, ognuno dovrà ammettere che Parsifal è un dramma un po’ diverso dagli altri, sia da quelli ad esempio di Verdi che dagli altri dello stesso Wagner. Innanzi tutto non è precisamente un “dramma” nel senso che l’azione vi fa molto difetto. I personaggi sono inconsistenti in sé stessi e non si presentano come psicologie a tutto tondo ma piuttosto come misteriose allegorie di qualcosa che ci sfugge. Come è stato scritto spesso, Parsifal è più affine ad una messa cantata che ad un’opera ed infatti Wagner stesso la chiamò “ein Bühnenweihfestspiel” (“azione scenica sacra” o anche “rappresentazione per la consacrazione della scena”) . Ma quale religione si sta celebrando? Ci sono simboli cristiani (il Graal, la lancia di Longino e la memoria di Cristo stesso), ma sono da prendere sul serio?
Si dà il caso che Wagner, oltre ad avere scritto i testi dei suoi drammi (inclusi alcuni non musicati come il Gesù di Nazareth e l’opera buddhista I vincitori), abbia scritto una mole impressionante di saggi teorici, che si situano a metà fra le note di regia dei registi moderni e libelli politico-filosofici, nelle quali si espongono spesso tesi deliranti che fanno apparire un Casaleggio perfettamente sano di mente. In particolare, negli anni della gestazione di Parsifal, Wagner redasse il saggio “Religione e arte” nel quale si sostiene che l’Arte ha il dovere di riscattare il simboli della Religione, ormai corrotta, per rivelarne le profonde verità nascoste. La decadenza della religione cristiana deriverebbe dall’indebita “infiltrazione” nel messaggio Parsifal – Bologna, 2014evangelico di elementi della religione giudaica, provenienti dall’Antico Testamento, con cui il cristianesimo vero non avrebbe nulla a che spartire. (Peraltro sarebbe una calunnia che Gesù stesso fosse ebreo.) Oltre a ciò, principale causa della corruzione dell’umanità sarebbe l’allontanamento dalla vera dieta vegetariana. (Secondo Wagner, d’altronde, anche gli animali carnivori lo sarebbero diventati a causa dell’indisponibilità di cibo vegetale in certi periodi della preistoria.) Inoltre, anche se si può sopravvivere benissimo anche al freddo senza mangiare carne, dovremmo tutti trasferirci in climi più temperati, ad esempio il Sudamerica. Eccetera eccetera… Non parliamo poi dell’antisemitismo vero e proprio di Wagner (teorizzato esplicitamente nel saggio Il giudaismo nella musica ed evocato indirettamente in numerosi personaggi dei suoi drammi musicali: Mime, Beckmesser, Klingsor). E questi impotenti Cavalieri del Graal, che non alzano un dito per salvare Amfortas e maltrattano Kundry, l’unica figura che cerca di rendersi utile, e si lasciano poi redimere da questo troglodita uomo della provvidenza che si fa incoronare re del Graal… come scacciare dalla mente l’analogia con la ricca borghesia che si disfece delle “pastoie della democrazia parlamentare” e si affidò irrazionalmente a Mussolini e Hitler, nonostante il disgusto che ne provavano?
Nessuno vorrebbe privarsi della geniale musica di Wagner, ma è possibile scindere i suoi libretti dalle sue teorie? In un saggio teorico si può cercare di ricostruire la totalità del pensiero di Wagner nella sua giusta luce, come un interessanti documento storico, e vedere che cosa ci sia di condivisibile e che cosa ci sia di inaccettabile. Ma sulla scena possiamo presentare documenti storici? O non dovremmo forse, come Wagner col cristianesimo, rinnovare questi simboli ed estrarre quella Parsifal – Bologna,2014che in essi è la profonda “verità per noi”? Questo è per l’appunto quello che si è cercato di fare in Germania dal secondo dopoguerra ad oggi. Motivati dal giusto senso di colpa storico, i tedeschi sono stati i primi a guidare questo movimento di “teatro di regia”, volto a trasformare o almeno nascondere le simbologie wagneriane e le loro imbarazzanti associazioni, a principiare dall’allestimento di Wieland Wagner alla riapertura del Festival di Bayreuth nel 1951. (È famoso l’aneddoto: il direttore d’orchestra Hans Knapperbusch aveva fortemente protestato contro l’assenza della colomba bianca prevista dal libretto sulla testa di Parsifal alla fine dell’opera e Wieland Wagner ne aveva fatta scendere una con un filo lungo abbastanza perché fosse vista dal direttore ma non dal pubblico.) I tanti critici del “teatro di regia” imperante nei teatri tedeschi (che si è poi esteso anche agli altri autori) dovrebbero almeno tenere a mente il nobile senso di espiazione che ne è alla base. Se si accetta quindi che non ci siano colombe e reliquie sacre, allora bisogna convenire con Castellucci che tanto vale creare una nuova visione con nuovi simboli che sia organica e coerente in sé stessa. E chi può farlo meglio di Castellucci, i cui spettacoli sono una continua idiosincratica messa laica? (Ricordiamo ad esempio Sul concetto di volto nel figlio di Dio reso famoso dai teo-con perché, come aveva preconizzato la traduzione italiana di Io e Annie di Woody Allen, aveva unito dissenso e teosoteria creando la dissenteria e vi si lanciavano escrementi sulla proiezione di un Cristo di Antonello da Messina) Chi meglio di Castellucci, abituato a rivolgersi ad un settario gruppo di fedelissimi invasati che conoscono a memoria i suoi spettacoli precedenti, può ricreare la magia rituale di Bayreuth? Armato del suo scudo di snobismo e superbia, Castellucci risogna il Parsifal, sostituendo nuove immagini alle vecchie, ma anche introducendone di nuove e cancellandone completamente altre. Lo spettatore si trova così davanti al sogno di un sogno. Si potrebbe obiettare che un regista dovrebbe chiarire, non complicare. Ma che cosa diventa un opera misterica e simbolista come il Parsifal senza misteri e simboli? Si potrebbe obiettare che se psicanalizzare i simboli di Wagner può essere un esercizio interessante, psicanalizzare i simboli di Castellucci sembra una perdita di tempo. Ma d’altra parte la messinscena moderna ci spinge a rileggere il libretto di Wagner e in questa frizione il senso critico dello spettatore ne viene vivificato. Certo, non c’è nulla di immediato: è un’esperienza alla seconda. Ma, date le considerazioni di cui sopra, come può non esserlo un Parsifal oggi?
Naturalmente tutto questo non avrebbe senso se le immagini di Castellucci non funzionassero. E invece, sorprendentemente, per lo più funzionano, un po’ per intuito, un po’ per studio.
Si comincia dal pedantesco. Durante il Preludio, proiettata su un tulle campeggia una foto di profilo di Nietzsche, il quale, da ex-wagneriano, privatamente aveva detto che Parsifal era la composizione musicale più sublime di Wagner e in pubblico aveva più volte dichiarato che era un’opera velenosa che avrebbe ammorbato l’Europa e gridato il suo Parsifal – Bolgna, 2014disgusto per “l’inginocchiamento ai piedi della croce” rappresentato dai suoi simboli cristiani (peraltro molto più cattolici che luterani) e per la sua sessuofobia rappresentata dal rifiuto di Parsifal di Kundry. Per Nietzsche, con Parsifal Wagner era diventato definitivamente tutto ciò contro cui ci si doveva battere: era diventato un tedesco. Anche supponendo che lo spettatore sappia queste cose, messo lì, Nietzsche che dice? Annuncia che questa sarà una regia critica verso Wagner? O che sarà un atto di riconciliazione fra i due? Sotto ad un orecchio della gigantografica proiezione si attorciglia come un pendente liberty il famoso pitone albino, star di questa produzione. A dirci che il veleno wagneriano si insinua per via auricolare? A ricordarci il travestitismo di Wagner, che amava indossare in privato lingerie femminile, e il fondamentale tema dell’androginia del suo teatro e dei suoi personaggi? Quale che sia la risposta, la pedante immagine cozza penosamente col sublime Preludio orchestrale. È pur vero che barba e baffi sono ritornati di gran moda, ma prima che il pubblico odierno possa non trovare ridicoli i baffoni da tricheco di Nietzsche ci vorrà ancora un po’.
Dopo questa falsa partenza, la regia prende il volo con una serie di immagini memorabili che soggiogano il pubblico con il loro virtuosismo tecnico. Vero è che i maggiori successi Castellucci li ottiene quando i suoi sogni coincidono con quelli di Wagner. Mi limito qui a segnalare alcuni tratti al lettore: un’analisi completa di questo spettacolo riempirebbe tranquillamente due ampi volumi. Il famoso cambio di scena a vista previsto nel primo atto tra la foresta e la sala del Graal, dove “il tempo diventa spazio”, come annuncia Gurnemanz, è realizzato nella maniera più spettacolare di tutti i tempi: la lussureggiante foresta (più affine a quella profana che dovrebbe apparire nel secondo atto, in verità, che a quella sacra del primo) si scioglie e, in un tripudio di sceno- e illumino-tecnica finalmente all’altezza della futuribile immaginazione di Wagner, si trasforma in una nebulosa pulsante e rotante intorno ad un buco nero. Purtroppo la fine di questo cambio di scena delude le aspettative: l’idea di Castellucci è che ovviamente il rito sacro sia una messinscena, quindi il teatro si mostra in tutto il suo squallore. Peccato che le decine e decine di figuranti facciano un fracasso d’inferno nel portare via tutti quegli alberelli e che il coro sia relegato (come quasi sempre in questo allestimento) fuori scena, ridotto a mero accompagnamento. Ma quando, al momento dello svelamento del Graal, la scena viene velata da un pio sipario bianco che invita lo spettatore a immaginarsi il rito secondo il proprio senso del sacro, e quando la forma del buco nero viene ripresa dalla ferita di Amfortas che, grazie ad un brillante espediente di luce, si trasforma in un’ombra scura che inghiotte tutto il palcoscenico, non si può non inginocchiarsi al regista. La forma concava e circolare sarà poi quella dello schermo-specchio attraverso cui Parsifal osserva la scena e quindi quella della gigantesca ostia trasparente che scende dopo l’agape sacra.
Dato che la scenografia del secondo atto era già stata utilizzata per il primo, Castellucci sceglie invece per il giardino di Klingsor un ambiente bianco che fa tanto contemporaneo, innaturale, sterile e scientifico, reso ancora più asettico e mortuario da due fregi neoclassici sul fondo. Klingsor è un direttore d’orchestra su un podio, in smoking ma con un grembiule bianco tipo macellaio, intento ad appendere alcune figuranti specializzate nello shibari, pratica sado-maso giapponese che consiste nel legare qualcuno con delle corde di canapa e lasciarlo penzolare in posizioni bizzarre. Evidentemente, poiché è incapace di godere in un modo normale, a Klingsor non rimane che “farlo strano” e distruggere il corpo in pezzi senza senso. L’immagine è trita ma funziona. In tutto l’atto il corpo umano e la sessualità vengono presentati in modo assolutamente non sensuale e terrificante. Il punto di vista è quello allucinato di Klingsor autocastratosi alla ricerca di castità e quello infantile dell’innocente Parsifal. Decisamente non si tratta di una finzione che potrebbe corrompere qualcuno. Le fanciulle-fiore, relegate ancora una volta fuori scena, sono incarnate (si fa per dire) da alcune ballerine piuttosto anoressiche tutte uguali con parruccone ossigenate, che fanno un ballettino totalmente meccanico. Ovviamente Parsifal non se le fila neanche per un istante. Peccato che la musica di Wagner in questo punto voglia invece essere esplicitamente sensuale e seducente. Ancora più mortuaria l’immagine della vagina esibita in stile Courbet da una figurante senza volto sul fondo della scena, fino a quando le sue gambe non vengono richiuse e annodate col filo rosso che già dal primo atto abbiamo associato con il senso di colpa e con la lancia di Longino, strumento che può essere insieme sacro e profano, impiegato da Klingsor per ferire Amfortas e per castrarsi. La concavità della ferita del sesso femminile è poi ripresa dallo scudo-specchio di Parsifal-Perseo che dapprima lo usa per osservare Kundry-Medusa (armata di pitone albino) e infine, acquisita nello specchio l’auto-coscienza, trova il coraggio di fissare il volto della Gorgone senza schermi, immagine questa assai nietzschiana. In questo momento, quando Parsifal rifiuta le avances di Kundry, lo spettacolo tocca il suo culmine di complessità (o confusione?). Si rompe la finzione scenica e l’interprete di Kundry scrive sulla bianca parete di fondo il proprio nome: “ANNA”. È un gesto molto forte. Il rifiuto di Parsifal di congiungersi carnalmente a lei ha offeso personalmente la femminilità di Anna Larsson, che sente il bisogno di affermarsi? La scritta poi viene completata e diventa “ANNA, ME, NOW, TIED”. La scritta se ne sta lì a ossessionare lo spettatore come “Mené, Mené, Techel, U-Parsin” alla festa di Baldassarre. Misteriosa la scelta dell’inglese anziché il tedesco, lo svedese (la lingua madre di Anna Larsson) o l’italiano. Forse Anna Larsson dentro al personaggio di Kundry sta tentando di comunicare con l’americano Andrew Richards dentro il personaggio di Parsifal? La lingua e la sua apparenza telegrafica e sconnessa potrebbe far pensare che si tratti di un anagramma, ma nessuno degli anagrammi che ho scritto sul programma di sala sembra avere un particolare senso. Tra i più interessanti e vagamente congruenti alla situazione: in tedesco “Wotan man dienen”, “Wotan: damen, nein” e in inglese “Dame Antinea won” (un riferimento alla più efficiente eroina dell’Atlandide di Benoit), “Dine, woman, eat” (esortazione alle ballerine anoressiche), “Not new idea, man” (esortazione al regista). Ma a quanto pare, in una prima versione la frase era “Anna, Alone, Now, Tied”, quindi l’ipotesi decade. Perché “Tied”? Un richiamo ai corpi legati da Klingsor? Imprigionata nel personaggio? Sul tulle in proscenio che vela la scena (l’immaginaria parete opposta) viene proiettata l’immagine del brutale amplesso che sarebbe potuto avvenire tra i due, che invece se ne stanno immobili. Ma quale di queste due immagini è la realtà? E quale è la realtà poi? Kundry o Anna Larsson? Insomma, non ci si capisce un accidente. Alla fine l’ostia semitrasparente viene posizionata a coprire il nome di Anna, che viene anche cancellato con la vernice nera.
Parsifal – Bologna, 2014L’ultimo atto è interamente dominato dall’immagine socialista di una folla in stile Quarto stato di Pellizza da Volpedo, incessantemente in cammino su un tapis roulant. Castellucci comprensibilmente trova fascista l’idea che la redenzione avvenga attraverso un singolo eletto dal signore. La ricerca deve essere collettiva. Anzi, nel momento in cui Parsifal dovrebbe sanare la ferita di Amfortas con la sacra lancia, gli attori sul palco si fermano e si accendono le luci di sala, come a dire che la redenzione il pubblico se la deve trovare da solo. Aiutati che il ciel t’aiuta, come si suol dire. Mentre la musica di Wagner ci dice che l’utopica redenzione avviene, Castellucci che non ha utopie lascia il finale sospeso e insoddisfacente. Sullo sfondo appare l’immagine rovesciata dei brutti grattacieli di una brutta periferia qualunque. La folla si dilegua e Parsifal resta solo in scena a contemplare il rametto verde (l’unico rimasto dal disboscamento del primo atto) che gli è servito da corona. “Lo sguardo tragico sulla bruttezza della città può trasformare l’orrore nell’epifania di una nuovissima bellezza” si legge sul programma di sala. Come dire: dire sì alla vita è possibile, basta avere il gusto dell’orrido. Messaggio condivisibile, ma fortemente dissonante con la musica di Wagner. Conquistato da questa immagine del Quarto stato (che però dopo dieci minuti diventa assai tediosa per lo spettatore) o assalito dalla pigrizia, purtroppo il regista dimentica di mettere in scena il funerale del santo antenato, Titurel, che sarebbe invece molto importante, e ignora il rituale di purificazione di Parsifal. Quanto a Kundry, non sembra essere stata particolarmente annientata dall’esperienza del secondo atto e in quest’ultimo atto compare con una brutta camicia a quadretti da boscaiolo, forse segno che è diventata lesbica. Di certo non si abbassa a lavare i piedi di nessuno. Alla fine guarda Parsifal ma non viene liberata dalla sua estenuante serie di reincarnazioni con la morte. Semplicemente esce di scena insieme agli altri. Chi ha avuto la costanza di leggere fin qui si dovrebbe essere reso conto che l’opinione sulla riuscita di questa regia dipende molto dalle convinzioni personali di ognuno. Quanto a me, nonostante le numerose asperità e lacune, alcune delle quali segnalate qui sopra, posso dire di avere molto apprezzato e ammirato il lavoro di Castellucci. Con mia grande sorpresa, ne sono stato affascinato. Ha fatto lavorare il mio cervello e mi ha portato ad approfondire ed infine forse ad amare quest’opera al di là della mia diffidenza. Non si può dire che sia stato un successo. Per uno spettacolo come questo, Castellucci o il Comunale di Bologna avrebbero dovuto pagare una claque agguerrita che lo fischiasse sonoramente. Invece al pubblico bolognese, indubbiamente per l’alto magistero scenotecnico e la piacevolezza visiva, questo spettacolo sembra essere piaciuto molto. Poco hanno potuto i “buh” di un paio di contestatori. Niente succès de scandale questa volta. Peccato! Facezie a parte, la cosa preoccupante è che ora Castellucci sarà sempre più richiesto come regista d’opera. A primavera debutterà a Vienna il suo Orfeo ed Euridice di Gluck. Bisogna solo sperare che abbia l’accortezza di guadagnare soldi solo con quelle opere che possono piegarsi alla sua poetica (Flauto magico?) e rifiutare quelle (molte) altre che invece non possono farlo.
Parsifal – Bologna, 2014Da un punto di vista musicale, l’esecuzione è stata complessivamente buona, anche se non eccezionale. L’orchestra, guidata con prudenza e qualche lentezza di troppo da Roberto Abbado, nipote del compianto Claudio Abbado, non ha esibito un’intonazione inappuntabile in molti accordi (tra cui purtroppo quello finale) e anche il coro, relegato un po’ troppo spesso fuori scena, non è riuscito sempre a trovare un compromesso bilanciato tra potenza e purezza del suono, specie le sezioni maschili. Il cast vocale era guidato dall’eccezionale Gurnemanz del giovane basso ungherese Gábor Bretz, dalla voce autorevole, ma morbida e naturale. Ottima anche la voce di Titurel, il basso armeno Arutjun Kotchinian. Buono il Parsifal del tenore americano Andrew Richards, che è non è impeccabile ma è un tenore normale con un suo normale squillo tenorile, non un qualche finto-baritono con la voce indietro come purtroppo sembra andare di moda oggi tra i “wagneriani”. L’italiano Lucio Gallo è stato un efficace Klingsor, molto aiutato da questa regia, che, come ho espresso sopra, ha ignorato una possibile visione psicologica dei personaggi salvo che nel suo caso. Inspiegabile la scelta di affidare Kundry ad Anna Larsson, mezzosoprano svedese dalla voce chiara ma comunque chiaramente mezzosopranile, famosa per la Erda. I direttori artistici pensano di essere molto intelligenti quanto affidano qualche ruolo da soprano drammatico ricco di note basse ad un mezzosoprano. Ma è inspiegabile che la Larsson abbia accettato una volta a Bruxelles e ancora più inspiegabile che abbia accettato di riprendere il ruolo a Bologna. Nelle parti più liriche e centrali, come il racconto della morte della madre di Parsifal, Herzeleide, la voce è piacevole, ma nei momenti più concitati la voce si sfoca e quando si tratta di ascendere agli acuti come avviene insistentemente nella fine del secondo atto, i La e i Si bemolli sono sbiancati e striduli. Ma vera piaga (se mi si concede il giuoco di parole) di questo cast è stato l’Amfortas del baritono tedesco Detlef Roth, una voce tenorile, priva di note basse e sforzata negli acuti e afflitta da un costante traballamento quale solitamente si osserva nei soprani settuagenari, decisamente non all’altezza del ruolo, nonostante lo abbia interpretate diverse volte a Bayreuth. Senza infamia e senza lode gli scudieri e i cavalieri. Piacevolissime le Fanciulle-fiore (Helena Orcoyen, Anna Corvino e Alena Sautier il primo gruppo e Diletta Rizzo Marin, Maria Rosaria Lopalco e Arianna Rinaldi il secondo gruppo), peraltro tutte belle ragazze che avrebbero ben meritato di comparire in scena.
P.V.Montanari | Bologna, 14 gennaio 2014
«Parsifal» l’immobile, centenario a Bologna
L’ultimo capolavoro di Wagner inaugura la stagione d’opera del Teatro Comunale. Regìa, scene e costumi, firmati da Castellucci, annichiliscono il carattere letterale del testo. Personale e d’interesse, tra tradizione italiana e cauta esposizione di orchestra e coro, la direzione di Roberto Abbado
I COMPOSITORI POSSONO SCEGLIERSI LE MOGLI ma non le vedove. Quanto a Richard Wagner, la storia è quella nota: l’iperzelante Cosima, che gli sopravvisse di quasi mezzo secolo, blindò l’esecuzione del Parsifal entro le sacre mura di Bayreuth. Finché le fu possibile: passati cent’anni dalla nascita del defunto marito, il 1o gennaio 1914 la partitura fu svincolata per legge, e in mezzo mondo si corse ad allestire l’inaccessibile opera. Allora, in prima fila c’era il Teatro Comunale di Bologna, santa sede wagneriana in Italia: il 14 gennaio 2014 (con successive cinque recite fino al giorno 25) il teatro felsineo ha fatto memoria di quell’evento e ha rinnovato la professione di fede con un nuovo Parsifal. O seminuovo, per la verità: l’allestimento con regìa, scene e costumi di Romeo Castellucci è infatti stato varato tre anni fa al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles. E, a dispetto del battage, è uno spettacolo piccoletto. Timoroso di non essere capito dove, nei fatti, v’è poco di logico da capire, il regista fornisce istruzioni per l’uso nel programma di sala (che da p. 83 a p. 95 è una vera e propria agiografia castellucciana, e che a p. 196 fornisce finanche il curriculum professionale dell’assistente alle luci: non una riga, ovviamente, sui cantanti). Castellucci esordisce: «Ho cercato di dimenticare tutto quello che si sapeva». E davvero lo spettatore neofita o esperto, uscendo dal teatro, nulla saprà di più sull’ultimo capolavoro di Wagner. Avrà invece visto l’annichilimento di ogni carattere letterale del testo e di ogni simbologia originale, dal verso alla musica alla didascalia, senza che gli sia dato un contraccambio intelligibile, in sé coerente e critico verso ciò che va ad annichilire.
Si assiste a una serie di visioni disparate, numerose all’incirca quanto le dita di una mano e statiche ciascuna per le molte decine di minuti di ciascun “momento” wagneriano. Il primo quadro dell’atto I, va detto, con quel bosco realisticamente ricreato sul palcoscenico, è stupendo virtuosismo sceno-illuminotecnico e una tra le immagini più suggestive viste su un palcoscenico lirico negli ultimi anni; ma insieme con l’atto II ambientato in un bianco nulla, o con l’atto III, dove in cento marciano al proscenio per interi quarti d’ora, su un tapis roulant, parafrasando Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, anche quel bosco è mero colpo d’occhio, ovvero astensione dall’azione anche solo psicologica. Non manca invece l’esibizione di piazza, per distrarre piacevolmente il pubblico in quell’immobilità visiva che è ancor più immobile della musica di Wagner: v’è un pitone vivo albino, insofferente di doversene stare attorcigliato sulla Kundry tentatrice, e v’è un cane pastore tedesco, che si guarda intorno perplesso e sbadiglia assai. Se i compositori non possono scegliersi le vedove, figurarsi se possono scegliersi i registi.
Qualche buona nuova v’è invece sul fronte dell’ascolto. Il direttore Roberto Abbado è al suo primo Parsifal e forse addirittura al suo primo Wagner integrale: cosa da far tremare i polsi, soprattutto di fronte a un’orchestra e a un coro italiani, né formati né abituati a questo repertorio e ai suoi presupposti retorici e tecnici. Abbado ha però dalla sua umiltà e buonsenso: non ha ancora scandagliato gli infiniti umori della partitura, ma ne sgrana con rara esattezza le figurazioni melodiche; si inserisce nell’antica tradizione, più italiana che tedesca, del Parsifal staccato a tempo il più lento possibile, e ama prolungare ad libitum le pause; riesce nondimeno a tenere a galla il fraseggio di orchestra e coro, cui chiede di suonare e cantare perlopiù piano piano piano, da una parte alleviando il lavoro dei cantanti, dall’altra consegnando una lettura onirica, soffusa, pulviscolosa, quasi impressionistica, soporifera forse per qualcuno e per molti, e di certo non brillante né trascinante, ma personale, inedita e atta a procurare la miglior figura possibile all’Orchestra e al Coro – non specialisti, lo si è detto – del Teatro Comunale.
Peccato che la regìa tradisca in più d’un caso le strutture musicali e penalizzi dunque il lavoro dei musicisti: per esempio quando, nell’atto I, la voce fuori campo di Titurel dovrebbe giungere come da un lontano oltretomba di palcoscenico, e risuona invece da un palco della sala stessa, più vicina d’ogni altro suono; o come quando, nell’atto II, i corpi e le voci delle Fanciulle-Fiore, anziché annodarsi e amalgamarsi sensualmente sulla scena, sono relegati nei palchi di proscenio, gli uni invisibili e le altre stridule (non per limite tecnico ma per la collocazione infelice); o come quando, nell’atto III, i due cortei di cavalieri che dialogano in botta e risposta sono fusi in un’unica massa, che domanda a sé stessa, a sé stessa risponde e manda a farsi benedire la scrittura antifonale a doppio coro.
Tra i cantanti, il migliore in campo è Lucio Gallo come Klingsor, raro caso di italiano a pieno agio nel repertorio wagneriano: a dispetto dell’usura vocale riscontrata negli ultimi anni, suo è il canto il più timbrato e risonante, e il più espressivamente variegato e sollecito. Intorno a lui, buona medietà e qualche delusione. Andrew Richards, del quale si conosce la maschia fragranza d’accento in Verdi, Bizet e Puccini, pare invece stanco e demotivato nella parte eponima. Lo stesso avviene per Detlef Roth: il suo Amfortas risulta qui ancor più timido di quello ascoltato e visto negli ultimi anni al Festival di Bayreuth (con altra regìa; tutt’altra). Non basta la forza di volontà ad Anna Larsson, che è una wagneriana di razza, ma in personaggi come Erda, contraltile a pieno titolo, e non come Kundry, sopranile nonostante alcuni foschi affondi; ella mostra così una calda rotondità nel registro centro-grave, che dovrebbe al contrario suonare torvo, mentre annaspa nell’ascesa all’acuto, come capiterebbe a qualsiasi Maddalena del Rigoletto la quale si sia messa in testa di passare all’Elisabetta del Don Carlo. Gábor Bretz, infine, ha voce di basso robusta e colorita, e piglio giovanile e gagliardo: tutti pregi; ma la parte dell’anziano e casto cavaliere Gurnemanz, pacato depositario delle storie del Gral e del suo tempio, abbisognerebbe di altro velluto e altra ieraticità.
Francesco Lora | 16 gennaio 2014
Parsifal the Environmentalist
This accepting and slightly chaotic city, famous for mortadella, lies south of Munich on the road to Rome. Here Mozart studied, Rossini grew up, Verdi premiered Don Carlo for his compatriots and a Wagner opera, Lohengrin, was staged in Italy for the first time.
Here too Parsifal had its first legitimate performance outside Bayreuth — at 3 p.m. on Jan. 1, 1914 — without bending the rules, adjusting the clock or relying on unilateral court permission. Determined to honor the centenary of this particular feat, Teatro Comunale di Bologna braved national cutbacks in subsidy to schedule six performances of the Bühnen-Weih-Festspiel this month in its 1,034-seat, 250-year-old house (pictured). It contracted a thoughtful 2011 Romeo Castellucci staging from Brussels, assembled a mostly worthy cast and, as early as November reportedly, put its musicians into rehearsals under Roberto Abbado.
On the second night of the run (Jan. 16), a Wagnerian body of sound emerged promptly from the pit, dispelling qualms that the orchestra — known for its central role at the Rossini Opera Festival in Pesaro — might not rise to the occasion. (Actually the Orchestra del Teatro Comunale offers a hefty concert season, held at Bologna’s Teatro Auditorium Manzoni, which is, like Heinz Hall, a converted movie house, but smaller and with good acoustics. Musical America blogger James Conlon leads a Jan. 30 program showcasing Shostakovich’s arduous Babi Yar Symphony.) Though there were blemishes, notably in the Act I Transformation, this Parsifal provided a plush four hours orchestrally. The winds intoned with precision, the strings shone or shimmered as required, exchanges were attentive and collegial. Abbado swept the music along in voluptuous waves, binding phrases together and tirelessly gesturing. It was a far cry from presentation of this score as slabs of aural concrete, or worse, operatic Bruckner.
Someone deserves credit for casting young Gábor Bretz in the senior duties of Gurnemanz. Here is a voice to sit back and enjoy all by itself: opulent, secure, relaxed, smoothly produced from bottom to top — and Bretz sang with enough poise to carry Act I mirth-free while costumed like Papageno. It was tempting to wonder what he might bring to, say, Winterreise. Anna Larsson remains an artist associated with concert repertory, but her Kundry worked strikingly in this production. From the low center of her voice — more alto than mezzo — she built smooth lines upward, projecting powerfully at the top while lending her courier and temptress an apt aura of timelessness. Castellucci does not throw his characters around the stage, and wild Kundry is no exception, but he does endow her with a six-foot living snake, to be held in one hand as she appeals to Parsifal. The snake duly writhed. Larsson modeled composure.
Overparted in the title role, tenor Andrew Richards sang guardedly much of the time and could not always be heard. But there were no ugly notes, even at moments when he was forced to force. His impact, in any case, was impaired by a staging that presents Parsifal as neither fool nor hero. Detlef Roth and Lucio Gallo both suffered a beat in the voice, as Amfortas and Klingsor, roles they performed together six years ago in Rome. Relatively young, Roth brought honeyed tone and crystalline German, but Wehvolles Erbe, dem ich verfallen shook in all the wrong ways. Gallo came across best during loud passages. The production substitutes balletic mimes for the six singing Blumenmädchen, who toil in the wings and thus avoid the bondage and torment enacted in view. A rapt, intensely lyrical (and tidy) Komm! Komm! Holder Knabe epitomized Abbado’s view of the score. Other roles were variably taken. The adult and children’s choruses contributed energetically but were out of sight some of the time and rather muffled.
Trained at Bologna’s Academy of Fine Arts, Castellucci built a reputation in legitimate theater before turning, with this Parsifal, to the bigger-budget world of opera. Unlike many régisseurs from the spoken side, he can follow at least the spirit of a musical score, even to the point of letting a character simply stand and sing. His Théâtre Royal de la Monnaie commission drew acclaim when it was new (and filmed). Taking as cue the forested first scene in the Land of the Grail and exploiting this opera’s abstractness, it converts the action into a plea against deforestation and pollution — a noble move, except that the open-ended threat to our environment precludes catharsis in the opera. Parsifal’s enlightenment, then, results merely in his joining the cause; the Grail serves as metaphor (its light is a white curtain); Good Friday could be any day of the year; and, needless to report, there is no white dove. The interpretation climaxes in Act III as the activist crowd plods forward on a huge whirring treadmill during the sublime Karfreitags-Zauber interlude.
All that said, Castellucci’s fresh approach exudes a certain calm resolve and compels attention, aided by impressive lighting effects. This performance added the benefit of fine musicianship. In a month that has cost Bologna its eminent citizen Claudio Abbado and, dismayingly, its 10-year-old award-winning Orchestra Mozart, the achievement with the Wagner is soothing balsam.
ANDREW POWELL | January 23, 2014