Tristano, quel mal di vivere che chiamiamo amore
L’ accordo di Si maggiore che chiude, finalmente sereno, nella pace e nel silenzio della notte in cui non sorge mai il sole, il lungo, terribile lamento degl’ infelici amanti, la loro disperata e inascoltata invocazione della fine, si è appena spento che dalla sala si alza un boato, un fragore tumultuoso di applausi ed è come se la vita, così a lungo insultata e spregiata per circa quattro ore di musica, riprendesse il sopravvento, reclamasse il suo diritto a fare chiasso. La bellezza sovrana della partitura nasconde a molti che dal primo misterioso, dissonante, accordo, all’ ultimo finalmente consonante, tutto il Tristano non è altro che una interminabile, e sublime, invocazione alla morte, anzi all’ estinzione della vita, come male supremo che ci consuma, dal mondo. Il senso è molto vicino alla concezione del Leopardi: vivere è soffrire, perché nessuno dei desideri da cui siamo agitati è realizzabile, se non per illusione. Chung si lascia ingoiare dalla dolcezza della musica, dall’ onda del canto che ci trascina sull’ orlo dell’ abisso: e là ci abbandona, quasi a dirci: «Guardate com’ è bello, il niente!». Violeta Urmana è un’ Isotta insieme appassionata e dolcissima, mentre più debole, anche se composto, appare il Tristano di Stig Andersen. Superbo, grandissimo Marke è Matti Salminen. Tenera Brangania, Lioba Braun. Peter Svensson, Melot, Alfredo Nigro, il pilota, e Gabriele Ribis, il pastore, completano degnamente il cast. tristan und isolde Dir. Myung-Whun Chung, con Violeta Urmana e Stig Andersen. Roma, Auditorium Parco della Musica,
DINO VILLATICO | 29 marzo 2004